sabato 29 dicembre 2012

Mrs Love Revolution MojoFilter (Club de Musique Records 2011)












Ecco una piccola, ma estremamente interessante realtà che si affaccia nel panorama underground italiano: MojoFilter.
La band bergamasca è attiva da diversi anni, macinando concerti su concerti su e giù per la penisola e dopo un Ep autoprodotto ( The Spell), ha licenziato il suo primo full lenght dal titolo Mrs Love Revolution.
A partire dalla meravigliosa cover, l'album in questione è davvero bello e magistralmente prodotto ed all'interno di ogni pezzo, le sonorità sono ben bilanciate per far si che si possano carpire tutte le sfumature del caso.
Ma veniamo al sodo: i Mojofilter suonano, pensano, vivono l'atmosfera degli Anni Settanta a 360 gradi.
Ascoltare questo album è come finire in una macchina del tempo con il timer puntato al 1972 e ritrovarsi catapultati tra free festival, viaggi lisergici, l'incubo del Vietnam dietro l'angolo e Jimi Hendrix che bruciava la sua Fender qualche anno prima sul palco di Woodstock.
Proprio al istrionico chitarrista di colore si rifà l'opener Just Like a Soldier, cosi come nel susseguirsi di ascolti troviamo riferimenti ai Creedence (The River) al primo hard rock di Free ed Alice Cooper ( Lick me Up), agli Stones ( Liar e Ragged Companion) fino alllo sgangherato country americano di Las Vegas.
Ma non pensate che i pezzi presenti in questo disco siano meri esercizi di stile: le composizioni sono accattivanti e brillano di luce propria, tanto che l'impronta MojoFilter è fermamente impressa come un marchio di fabbrica.
Ma perchè quindi comprare un album come questo? Perchè fa stare dannatamente bene! Lo si mette in macchina e non lo si vorrebbe mai più togliere dallo stereo; perchè si muove in territori sicuri, lontani da mode e trend, ma è animato da pura passione e straordinaria tecnica.
Il mio consiglio è di cercare di vedere la band dal vivo, vere e proprie macchine da palco e poi, avvicinarsi al loro banchetto del merchandising e acquistare senza indugi questo cd!
P.S.
Un appello ai MojoFilter...ma un edizione in vinile? Con un artwork cosi è un suicidio non concepire l'edizione per i nostalgici del caro e vecchio disco!
www.mojofilter.it
https://www.facebook.com/mojofilter.rock?fref=ts










sabato 22 dicembre 2012

Drugs, God and the New Republic Warrior Soul (Geffen Records1991)












Che cos'è una cult band? Si definisce tale una band che durante la propria carriera ha proposto musica innovativa ed originale, raccogliendo ottime recensioni dagli addetti ai lavori e creandosi una buona reputazione grazie al continuo passaparola dei fans, ma che , nonostante tutto rimane sempre relegata ai margini del business discografico, per raccogliere poi, a distanza di anni, i meritati frutti del lavoro svolto.
Si può definire tale la band capitanata da Kory Clarke, istrionico leader di una delle migliori realtà degli Anni Novanta? A mio avviso si, dato che all'epoca i Warrior Soul licenziarono un buon filotto di album che fecero splendere la loro meteora per almeno un lustro.
Drugs, God and the New Republic è il  secondo lavoro, che permise loro di fare un notevole salto di qualità grazie ad un sound potente e melodico, a metà tra lo street metal ed il punk americano, con i testi di Kory sempre molto attenti al contesto sociali e carichi di rabbia al vetriolo.
Sin dall' intro strumentale si nota subito l'originalità di una band davvero fuori dagli schemi, un suono carico di chitarre ma allo stesso tempo ipnotico ed ammaliante che deflagra nella cover dei Joy Division, Interzone.
Anche qui una mosca bianca nel panorama musicale dell'epoca, dato che la band di Ian Curtis non era ancora cosi idolatrata come in questo ultimo decennio, ma la versione di Kory Clarke e soci la rende aggressiva ed anarchica, un vero e proprio anthem a metà tra il punk ed il metal.
La title track affonda i denti in sonorità che si sarebbero affermate qualche anno dopo a qualche centinaio di chilometri da New York. Sto parlando di Seattle e del movimento grunge, visto che sia il cantatato che la musica dei Warrior Soul è fortemente accostabile ai lavori degli Alice in Chains prima maniera, anche se in un formato più aggressivo. La critica coniò un termine per etichettare la loro musica, definendola "acid punk", ma i punti di contatto con la Seattle scene sono davvero tanti, basti ascoltare la successiva Jump for Joy per capire quanto fossero avanti i Warrior Soul.
Il lato più metal viene fuori nel singolo The Wasteland, sostenuto da un ottimo riff di John Ricco, un ottimo ed originale chitarrista, a mio avviso molto sottovalutato all'epoca, che pagò il dazio di trovarsi al crocevia tra il declino dei guitar heroes anni Ottanta e la nuova voglia di ribellione punk rock dei Novanta.
Proprio Wasteland contiene liriche manifesto del Warrior Soul-pensiero ovvero un incendiario atto di anarchica rivolta su di uno scenario di degrado urbano.
I can't live unless I'm free you've gotta run to stay with me
I move from town to town I'm livin' on the underground
hey baby come with me I meet a lot of good company
to beat the system move around it's the only way to freedom today
find the freedom today if I make bail tell you where I go
gonna cross the border into mexico tequila's cheap as sunshine
wind up bangin' everything in sight I'm free and that's a fact
once I leave I ain't never comin' back
I'm in the wasteland

Il disco prosegue con altre due gemme come Children of The Winter, un intenso ed emozionante pezzo metal che vede Ricco sugli scudi e Kory Clarke intonare un liberatorio inno di speranza e di lotta, forse uno ei migliori testi di questo album
this fight's for you and me in the land of the free
the rock minority against hypocrisy
they crucify our words but they don't understand
we wan't a better world and a share of our land
they point at us but we're their children
we fight because they thaught us to be free
the land where our fathers died the land of the pilgrims pride
forced us to decide if we stand or if we hide
belive in me we'll fight forever
until we're free
we'll fight together oh , ya come on down
children of the winter walk into the springtime
the fathers fought a revolution a fight for what we belive in
our rights sown there's no confusion
I don't need to be forgiven to be forgiven
the land where our fathers died the land of the pilgrims pride
my hatred I can't hide I'll kill before they take my rights
come walk with me we'll go to heaven
the world will be our dream toghter
come take my hand rejoice forever
the promised land if we remember
children of the winter
walk into the springtime 

e la successiva Hero, una power ballad che riporta i Warrior Soul nei territori hard rock più classici, ma che regala una delle più belle songs del loro repertorio e, soprattutto degli Anni Novanta.
Con questo album inizia il grande salto della band che la vedrà  realizzare altri due dischi per poi sciogliersi e rinascere sotto altri monicker. Questo è un ottimo punto di inizio per scoprire tutta la discografia di questo gruppo e conoscere il mondo musicale di Kory Clarke, sicuramente un personaggio di culto che, a suo modo, ha lasciato il segno nel panorama rock/metal dei Nineties.
www.myspace.com/warriorsoulinfo
www.facebook.com/warriorsoulofficial
spotify:album:6iWO2KFTBp9T7mtsLucHmn




lunedì 10 dicembre 2012

Underwater The Leeches (Tre Accordi Records 2012)












A.D. 2012..ovvero il ritorno del "fat rock"!!!! Underwater è l'ennesima fatica dei comaschi Leeches, una delle migliori realtà italiche, tanto che i loro innumerevoli ed infuocati live li hanno portati ad aprire per Bad Religion, NOFX, Adolescents e CJ Ramone. Proprio da questo ultimo tour è nata la collaborazione con Daniel Rey, ovvero il quinto "Ramone", la mente che ha prodotto pezzi storici come Pet Sematary o Poison Heart. Il vecchio producer dei Ramones ha deciso di collaborare con i Leeches e mettere mano  ai suoni di questo nuovo lavoro...e si sente!!! Il disco suona perfetto come non mai e scivola via perfetto nella sua mezz'ora abbondante, tanto da far venir voglia di rimettere la puntina da capo e farlo ricominciare di nuovo.
Ovviamente lo zampino di Rey è solo la ciliegina su una squisita torta ( e con i Leeches non si può fare a meno di parlare di cibo!!!) che i boys from Como hanno confezionato regalandoci una manciata di punk rock songs veloci, tirate e dannatamente melodiche che non possono che conquistare la presa dopo un paio di ascolti.
Il singolo Piranha Boys o l'iniziale I'm Everything to Me sono il giusto connubio tra i  Ramones (ancora loro..ebbene si!!) e l'hardcore californiano degli Anni Novanta mentre le anthemiche Feeling Allright Tonight e Vanilla Coke sono ideali per il macello sotto palco.
A conclusione del disco sono poste un insolita cover dei Blue Oyster Cult, Me-262, rifatta in una versione punk ma che mantiene quell' aurea "misteriosa" della band madre e Into the Storm che inizia con un atipico arpeggio acustico nella prima parte per poi deflagrare in veloci schitarrate nella sua conclusione.
Tirando le somme, Underwater nulla aggiunge e nulla toglie alla discografia della band, se non un altra occasione per ribadire che l'appellativo di "migliore punk band italiana" calza a pennello sulla testa dei quattro rockers comaschi  e l'unico rammarico è che se fossero provenienti da qualche sobborgo di Orange County ora sarebbero ben più famosi!
www.myspace.com/leechesfatrock
www.facebook.com/LEECHES

domenica 25 novembre 2012

Silver Age Bob Mould (Merge Records 2012)












Domanda: si può essere incazzati e punk a cinquanta e passa anni suonati? Ascoltando il ritorno discografico di Bob Mould  la risposta è si, eccome!!!!
Silver Age è l'ultima fatica di una delle icone punk rock per eccellenza, leader dei seminali Husker Du (non li conoscete? andate ad ascoltarvi Zen Arcade!) e poi di quel gioiellino pop-rock dei Sugar, band che ebbe un discreto successo nei circuiti alternativi negli anni Novanta.
Ed ora rieccolo in pista, a contemplare la sua "Silver Age", ovvero quella mezza età che lo vede ancora irrequieto ma riflessivo allo stesso tempo, ma soprattutto capace di scrivere tre quarti d'ora di ottima musica e di proporre una miscela di power pop che lascia stupefatti!
Il terzetto iniziale Star Machine/Silver Age/The Descent è un biglietto da visita al fulmicotone, dolci caramelle pop rivestite da una ruvida corazza di chitarre, basso e batteria.
Bob Mould riprende la lezione di storia dei suoi Husker Du e la tramanda alle nuove generazioni  addolcendola con  i suoni della generazione rock attuale: Foo Fighters, Green Day e Bad  Religion in primis, con la benedizione proprio di Dave Grohl che ha sempre speso grandi elogi per questo cinquantenne punk rocker!.
La ballata elettrica Steam of Hercules è un punto di rottura e serve per prendere fiato per poi ributtarsi a capofitto nella seconda metà del disco dove la doppietta finale Keep Believing (altro omaggio ai Foo Fighters) e First Time Joy ci danno il commiato lasciandoci la soddisfazione addosso e la voglia di pigiare un altra volta il tasto play per ricominciare da capo.
Non è un album che salverà le sorti del rock and roll, ma fa stare bene: è fresco, è veloce ed è dannatamente ruffiano ma senza mai cadere nel banale, ovvero una ricetta che solo i grandi rocker possono  saper miscelare.
Se Silver Age sta per mezza età e capelli brizzolati, io aggiungerei anche "ArgentoVivo" dato che il buon Bob Mould sembra davvero avercelo addosso e la frase "Never Too Old to Contain My Rage", contenuta proprio nella titletrack, sembra davvero esserne il manifesto più lampante.
www.bobmould.com
www.facebook.com/bobmouldmusic

lunedì 5 novembre 2012

Streetcore Joe Strummer (Hellcat Records 2003)












"SOMEWHERE IN MY SOUL, THERE ALWAYS  ROCK AND ROLL"
Quando nei primi anni del nuovo secolo, uno ad uno se ne andarono 3/4 della formazione dei Ramones, lo sconforto tra i fans (me in primis) fu profondo, ma fu anche accolto come un "beh prima o poi doveva succedere" viste le precarie condizioni di salute dei "Brodders". Ma all'annuncio dell'improvvisa morte di Joe Strummer, il 22 dicembre 2002, la comunità di fans rimase scioccata, dato che l'ex frontman dei Clash era in piena attività, sia compositiva sia dal punto di vista live, con la sua  rodata backing band, i Mescaleros.
Il disco che sto per recensire lo si può definire postumo a tutti gli effetti, visto che uscì un anno dopo la sua morte, per volere della sua band che finì di suonare e registrare i demo in fase embrionale delle canzoni qui presenti.
In molti storcerono il naso, ma analizzando più a fondo i contenuti di questo album affiorano le idee e la forte personalità di un instancabile musicista, sempre pronto a mettere in gioco la sua arte e la sua infinita passione.
Strummer ha sempre avuto una visione a 360 gradi riguardo la musica, non ponendosi mai limiti o barriere di genere, ma lasciandosi trasportare dalle emozioni che gli davano musicisti ed artisti dai luoghi più disparati del globo: il messaggio di Streetcore è chiaro, riportare la musica alla sua forma più pura e sincera, partendo proprio dalla strada, dal viaggio, dai ricordi e dalle conoscenze che si possono fare quando si passa la vita on the road, salendo e scendendo da un palco all altro, che sia quello del Madison Square Garden oppure quello di un anonimo pub della periferia inglese.
Nei quaranta minuti di questo testamento sonoro c'è davvero tanta carne al fuoco, dall'attacco inziale di Coma Girl, con il suo rock and roll garage minimale fino alle divagazioni rocksteady di Get Down Moses, dove lo spirito combat e barricadero che ha sempre contraddistinto Strummer esce prepotentemente.
Lying in a dream, cross battle field,
Crashing on a downtown strip,
Looking in the eyes of the diamonds and the spies and the hip
Who's sponsoring the crack ghetto?
Who's lecturing? Who's in the know and in the don't know?
You better take the walls of Jericho

Put your lips together and blow
Goin' to the very top
Where the truth crystallizes like jewels, in the rock, in the rock
Get Down Moses - from the eagle's aerie

We gotta to make new friends out of old enemies
Get Down Moses - back in Tennessee
Get Down Moses - down with the dreads
They got a lotta reasoning in a dreadhead
Get Down Moses - down in the street
Get Down Moses

 Sulle note di Long Shadows aleggia l'ombra di Johnny Cash ed infatti la leggenda vuole che questo pezzo sia stato composto per essere cantato insieme a lui, ma purtroppo il destino, ancora una volta beffardo non ha mai fatto incontrare i due per questa session.
Una bellissima ballad in stile American Roots, dall' aria polverosa e vagabonda fatta per percorrere le strade d'America e dare voce a tutti gli arrabbiati
 I hear punks talk of anarchy – I hear hobos on the railroads
I hear mutterings on the chain gangs
It’s those men who build the roads

Anche la successiva Arms Aloft è destinata a lasciare il segno, grazie alle sonorità più rock oriented, tanto da essere coverizzata negli anni a seguire dai Pearl Jam e chissa, forse nei progetti di  Joe Strummer, ci sarebbe stata anche una collaborazione con loro. Ancora una volta il destino con cui fare i conti....
L'etereo dub di Ramshackle Day Parade, con le sue aperture corali ci porta alla prima delle due cover inserite in questo album, quella Redemption Song che fu la celebrazione massima di Bob Marley, qui è omaggiata dalla voce calda e dall'accento cockney di Strummer in una versione che lascia gli occhi gonfi di lacrime tanta è l'intensità di questo pezzo.
La seconda cover è posta in chiusura, Silver and Gold, ma conosciuta come Before I Grow Too Old di Bobby Charles ed è l'ennesimo sberleffo del destino, poichè vengono citati sogni e buoni propositi da fare prima di invecchiare...ma Joe non ne ha avuto modo e non ne avrebbe avuto nemmeno tempo vista la sua frenetica e costante attività di musicista, scrittore, dj, oratore e organizzatore di eventi come Strummerville, una Woodstock in miniatura dedicata all'impegno sociale e al promuovere band emergenti.
Un album quindi che ha molto da dare, forse la migliore uscita da quando Strummer pose fine ai Clash trovando il giusto equilibrio con la sua nuova creatura, i Mescaleros. ed ancora una volta è il caso di dirlo...maledetto destino!
Strummerville
RadioClash. Portale Italiano sui Clash e Joe Strummer


giovedì 1 novembre 2012

Il Giorno del Sole Negazione (Edizioni Shake 2012)

 "DOVUNQUE TU SIA, OVUNQUE IO VADA, SAREMO SEMPRE UNICI"
Nei ricordi di chi, come me , ormai si avvicina agli 'Anta, c'è di continuo un concerto: Il Monsters of Rock, festival che si tenne nel 1991 a Modena e che annoverava nomi del calibro dei Metallica (freschi di Black Album), AC/DC (headliner della serata, reduci da Donington), Queensryche, Black Crowes ed in apertura una band italiana, i Negazione, che con il mondo hard rock/heavy metal c'entrava davvero poco, ma quel pomeriggio ottenne il riconoscimento da parte della massa, degli sforzi fatti nella loro, fin li, decennale carriera, che guarda caso finì proprio dopo quel bagno di folla.
I Negazione, da Torino, ricoprono un ruolo fondamentale nella mia crescita musicale e personale ed è con sommo piacere che accolgo questa uscita postuma, edita dalla Shake, che vede celebrare la band con il cd contenente il loro capolavoro Lo Spirito Continua, il primo EP Condannati a Morte nel Vostro Quieto Vivere, più la traccia Il Giorno del Sole, che da poi il titolo all'uscita in questione. Il tutto corredato da un libretto contenente pensieri, riflessioni, parole dei tre componenti storici, Marco, Zazzo e Tax che rivolgono le emozioni impresse di quei fantastici anni, compresi tra il 1984 ed il 1988, ad Elia, il figlio di Fabrizio Fiegl, il batterista (ne cambiarono tanti..ma lui rimase Il Batterista dei Negazione) scomparso l'anno scorso.
Giuro che mi sono emozionato nel leggere queste pagine fatte di racconti, aneddoti, ricordi, "una collezione di attimi per le sensazioni più belle", tanto per citare i diretti interessati , che vanno a ripercorrere anni lontani, in cui si attraversava l'Italia e l' Europa in furgone oppure in Interrail. Pochi soldi, gettoni del telefono, volantini fotocopiati e cassette registrate. Sembra preistoria a cospetto del "tutto e subito" della generazione attuale, ma i Negazione sono stati pionieri in questo: i primi ad affrontare un vero e proprio tour europeo, i primi ad andare a registrare all'estero, in Olanda, un paese avanti come mezzi e mentalità rispetto all'Italietta degli Anni Ottanta, i primi a vivere in maniera professionale la propria passione, dando un bello scossone al movimento hardcore tricolore e non.
 E poi, last but not least, la musica, le parole, emozioni forti, fortissime che hanno lasciato un impronta indelebile in tanti. I testi di Zazzo erano in bilico tra la sovversiva disobbedienza civile e la poesia malinconica di chi, getta uno sguardo alla giungla metropolitana, ma non smette mai di guardarsi dentro.
Lo Spirito Continua èil loro manifesto: una dichiarazione di intenti, un invito ad andare avanti senza mai vendere se stessi ai compromessi della vita

Lo spirito continua....
...continua...lo spirito...
dietro lamenti melodiosi
risuona la voce di un vecchio
a raccontare il senso di una vita
collezione di attimi
per le sensazioni piu` belle
ma lo spirito continua!
Leggo di me negli occhi di gente sconosciuta
leggo di me in loro
e non sono ostili
Ma il ricordo puo` uccidere il bisogno...
...non ho paura di quel rumore
c'e` un lampo nei tuoi occhi
che non potro` mai spiegarti
mentre ti alzi e te ne vai
guardo verso una parola lontana...
...Il gioco di immagini e` riuscito
esplode una risata sensuale...
Io sorrido sopra il mio odio
scoprendomi dentro un amore spesso negato
scopro te nel mio corpo
non voglio ucciderti
Devi solo imparare a conoscermi
io faro` lo stesso
e forse allora anche la ferita
fara` meno male
lo spirito continua
potremo davvero essere vecchi e forti.

Citando di nuovo una loro canzone, loro bruciavano di vita e quella fiamma che hanno tenuta accesa per anni lascia ancora un bagliore intenso nei ricordi di vecchi fans, amici, di chi li ha conosciuti e di chi ha fatto proprie le loro canzoni, schegge di hardcore veloce e compatto, ma con una ben marcata impronta melodica che si faceva largo tra le urla di Zazzo e i riff serrati di Tax.
Un ottima uscita per coloro che sono cresciuti con i loro album e si ritroveranno ancora una volta a pensare e commuoversi magari leggendo tra le pagine del libro allegato, ma anche un modo per avvicinare le generazioni più giovani ad una band che è stata l'apice della scena hardcore italiana degli Anni Ottanta che ha saputo muoversi in un Paese che era ancora troppo indietro rispetto all'Europa: lucidi guerrieri pronti a vendicare la vita, ribelli al nostro destino, piccola minaccia in un tempo sbagliato



domenica 28 ottobre 2012

'Till the Day I Die The Backseat Boogie (Autoprodotto 2010)












Un luogo comune legato alla Brianza è  che i suoi abitanti pensino solamente a lavorare e fare soldi, tanto da renderla una delle zone più floride dal punto di vista economico, ma devo dire che da qualche anno a questa parte la "Briansa" sta regalando anche una buona scena musicale underground, fatta da band che collaborano tra di loro e molti concerti davvero interessanti. Si passa dal punkrock dei Lechees fino al surf dei Wavers  attraverso una miriade di bands valide come appunto questi Backseat Boogie.
La band di Seregno ci propone, in questo primo album totalmente autoprodotto, una mezzora di ottimo rock and roll di annata con brani veloci, dinamici e ben strutturati.
L'attitudine ed il suono sono Vintage al 100% e brani come la titletrack o You Gotta Make Her Laugh sono coinvolgenti soprattutto dal vivo, realtà in cui la band riesce a dare il meglio di se.
Le influenze sono sicuramente legate al rockabilly degli anni Cinquanta, ma complice anche l'utilizzo del banjo, la band affonda le sue radici anche nell'area roots e bluegrass, creando un ibrido davvero spettacolare.
In Zombieville c'è tempo anche per le atmosfere psychobilly con qualche richiamo ai Meteors ma il resto dei brani scorre via veloce con i ritornelli che ti si stampano in testa fin dal primo ascolto.
Ecco quindi un altra bella realtà locale che merita di essere seguita e supportata in pieno e che va a rinfoltire le file della scena rock and roll "made in Brianza"!
www.myspace.com/thebackseatboogie

https://www.facebook.com/pages/BACKSEAT-BOOGIE

giovedì 11 ottobre 2012

Dirt Alice in Chains (Columbia Records 1992)












You, you are so special
You have the talent to make me feel like dirt
And you, you use your talent to dig me under
And cover me with dirt

(Dirt)
 Non si può definire Dirt come un semplice pezzo della discografia degli Alice in Chains, perchè oltre ad esserne il capolavoro assoluto è anche il manifesto del disagio interiore di una delle icone massime degli Anni Novanta: Layne Staley.
L'ascolto di questo album è un lungo viaggio nella tossicodipendenza, una discesa verso l'oblio più cupo in cui Layne ci accompagna per mano, descrivendo i suoi tormenti alterati dall'inferno dell'eroina con una lucidità ed una disperazione disarmante.
E' il 1992 quando esce nei negozi Dirt che, trainato dal singolo Would (tra l'altro già presente nella soundtrack del film Singles) riesce a scalare le classifiche e portare la band di Seattle sotto le luci della ribalta ed imbarcarsi per tour estesi come headliner.
La miscela tra hard rock, cromature metalliche e psichedelia è esplosiva, Jerry Cantrell viene riconosciuto come uno tra i migliori chitarristi in circolazione e la band stessa verrà apprezzata oltre che dai fans dell'alternative, anche dai metallari più intransigenti, fattore che permetterà di accompagnare le rockstar Metallica in tour.
Ma la voce di Layne Staley e i suoi disperati deliri risulteranno il valore aggiunto che regalerà "poesia maledetta" a questo album!
L'apertura è affidata a Them Bones con un'urlo disperato, quel "Primal Scream" che risveglia l'ascoltatore e lo prende per mano in questa  discesa decadente, per poi passare al cantato folle di Dam that River ed alle sonorità liquide e  psichedeliche di Rain When I Die.
Con Sickman, introdotta da echi tribali inizia la tetra descrizione del calvario personale di Staley

I can feel the wheel, but I can't steer
When my thoughts become my biggest fear

Ah, what's the difference, I'll die

In this sick world of mine

Sembra impossibile cambiare rotta, in queste poche parole vengono messe a nudo tutte le paure e la consapevolezza di essere in un tunnel senza fine.
Ascoltando e rileggendo le parole di Staley ho sempre pensato che, in cuor suo, lui fosse consapevole che non ci sarebbe mai stata una via d'uscita: In molti passaggi la sua è una resa incondizionata al demone dell'eroina, una spiazzante e lucida riflessione di chi si autocondanna a morte.
 La meravigliosa, ma altrettanto struggente ballad Down in a Hole non lascia dubbi riguardo all'animo depresso e tormentato di quest'uomo
Down in a hole and I don't know if I can be saved
See my heart I decorate it like a grave
Well you don't understand who they
Thought I was supposed to be
Look at me now I'm a man
Who won't let himself be

Down in a hole, feelin so small

Down in a hole, losin my soul
I'd like to fly,
But my wings have been so denied

Anche le successive  JunkHead e Godsmack non lasciano dubbi sulle abitudini tossiche del cantante, anche se in queste due canzoni viene dato più risalto al piacere che da l'estasi onirica delle droghe. ( Godsmack nello slang è il termine che si usa per descrivere la botta iniziale che da l'eroina, letterlamente  "il bacio di Dio").
 What in God's name have you done?
Stick your arm for some real fun
So your sickness weighs a ton
And God's name is smack for some

L'altra ballad presente. The Rooster, scritta da Jerry Cantrell, si discosta da queste tematiche ed è una dedica al padre, veterano della guerra in Vietnam, il quale, agli occhi del figlio, porta dentro di sè le orribili visioni patite in quegli anni.
Walkin' tall machine gun man
They spit on me in my home land
Gloria sent me pictures of my boy
Got my pills 'gainst mosquito death
My buddy's breathin' his dyin' breath
Oh god please won't you help me make it through

Un disco pressocchè perfetto, un manifesto sonoro, ma soprattutto il capolavoro di una band che si è bruciata in fretta, ma ha senza dubbio lasciato un peso fondamentale nella scena rock degli Anni Novanta, creando un suono ed un immagine forte che è entrata di diritto nella storia.
www.aliceinchains.com 
www.myspace.com/aliceinchains 

domenica 16 settembre 2012

Nati per Subire The Zen Circus (La Tempesta 2011)












Ho avuto modo di entrare in contatto con il mondo del Circo Zen qualche anno fa, quando mi imbattei nell'ascolto di Villa Inferno, un piccolo gioiellino indie folk made in Italy che lasciava ben presagire per il futuro. Ecco quindi, qualche anno dopo, complice un concerto a pochi chilometri da casa mia, che mi trovo tra le mani l'ultima fatica del trio pisano che ormai risale ad un annetto fa.
Sin dalle prime note iniziali trovo una band profondamnete cambiata, più matura e con un suono uniforme, perfettamente in bilico tra Pixies e Violent Femmes, con la scelta (giusta!) di cantare in italiano, un particolare che avevo apprezzato parecchio su Villa Inferno e che mi auguravo fosse sfruttato nel futuro di questa band.
Infatti uno dei punti forza di questo album sono i testi, scritti da Ivan Appino, che si lascia andare seguendo il suo "stream of consciousness" e regalandoci una fotografia precisa della Nostra Italietta (ovvero Il Paese che Sembra una Scarpa, il brano che apre l'album) condita dal freddo sarcasmo e dal nero e sagace umorismo toscano.
E via quindi con una carrellata di immagini messe in musica che disegnano i contorni della nostra società fatta da paradossi e contaddizioni, da debiti e vite al limite della sopravvivenza quotidiana, da vuote giornate nei centri commerciali a lustrarsi gli occhi nel nulla che ci ricordano che siamo Nati per Subire le ingiustizie della vita senza via d'uscita alcuna.
 nato per errore, per una probabilità / nato e cercato con ferma volontà / nato morto, nato stanco, nato in capo al mondo / o al centro dell'universo che si dice "è nato tondo" / nato per usare gli altri a proprio piacimento / nato per restare a fissare il pavimento / nato già fregato, amato e poi dimenticato / con la camicia blu ed il colletto inamidato / sei nato per subire, te lo ricordano i bambini / già stronzi e come te, dei futuri soldatini 
Gli Zen Circus fanno politica è indubbio, ma in maniera diversa e lontana dagli slogan da barricata degli Anni Settanta, visto che ormai certe ideologie sono morte e sepolte e brani come  I Qualunquisti o La Democrazia Semplicemente non Funziona (special guest Giorgio Canali che si prende la briga di mandare tutti a farci fottere) sono il manifesto ideologico di chi ha superato un certo cantautorato proletario di quasi quarant'anni fa, sempre troppo radicato nella scena musicale italiana.
ultimo dei tuoi problemi è la mobilità sociale
che non s'è mai capito cosa vuol significare
infatti siam tutti in giro che non si riesce a passare
che ci sia di sociale ce lo devono spiegare
son poveri di spirito i poveri in generale
per diventare povero devi esser matto da legare
un sorriso al posto giusto, un abbraccio alla mammina
e come disse Hitler: "alzati e cammina"
non chiamarci comunisti
dai che non ce n'è più bisogno
piuttosto siamo i qualunquisti
gente come te. 

(da I Qualunquisti)
Ragazzi in cerchio e una chitarra suona
la democrazia semplicemente non funziona
metto una bomba sotto casa tua
il fascino indiscreto della mia pazzia
col dito al cielo urli tutta la tua rabbia (la tua rabbia)
ma non ti accorgi che hai la testa nella sabbia (nella sabbia

 (da La democrazia Semplicemente non Funziona)
E probabilmente per Appino e soci non c'è una via d'uscita, nemmeno il rifugio nella fede religiosa può giovare qualcosa, visto che ne L'Amorale, si nega l'esistenza di Dio con un ritornello che è l'highlight assoluto di questo  album, una filastrocca per bambini condita da un nero cinismo.
dio non esiste, lasciatelo dire
è una morale per me, un'amorale
non ci pensare e continua a camminare
è una morale per me, un'amorale
se dio non esiste non esiste il male
ed è normale per te che lo sai fare
non ti fermare e continua a viaggiare
che è necessario per chi è stanco di aspettare.

Ad ogni modo ci sono momenti anche più easy all'interno di Nati per Subire, come la divertente Milanesi al Mare, una punk pop song con un testo nonsense e la ballata folk Ragazzo Eroe che chiama a raccolta tutti i prototipi giovanili della Nostra Penisola.
Nati per Subire, ovvero uno spettacolare affresco dei Nostri Giorni!
www.thezencircus.com
www.myspace.com/thezencircus
www.facebook.com/thezencircus


martedì 4 settembre 2012

Handwritten The Gaslight Anthem (Mercury Records 2012)












E fu cosi che anche le "ex next big things" della scena rock attuale firmarono un contratto con una major, spiccando cosi il volo verso una maggiore esposizione mediatica ed un ampio (e giusto) riconoscimento anche da chi non ha mai bazziccato nel marasma underground.
Ma questo salto di qualità cosa significa? Suoni MTV-friendly, video con lustrini, donnine e pailettes e tour su palchi che sembrano astronavi? A guardare bene direi proprio di no, anzi, i ragazzi del New Jersey sembrano non aver cambiato di una virgola il loro approccio, mai sopra le righe, al music business, ma soprattutto anche la loro proposta musicale è rimasta coerente con quanto hanno fatto finora.
Ma quindi che futuro avrà questo Handwritten? A dire il vero molto nebuloso, visto che nonostante la buona fattura di gran parte dei brani presenti, manca un pò di quella mordace aggressività che aveva contraddistinto i precedenti lavori. Certo la produzione di Brendan O Brian ha smussato parecchi angoli e ha lavorato di fino su tanti arrangiamenti, ma il punto è che in tutto il minutaggio del disco manca quella scarica di energia e sudore che permeava quel capolavoro di 59 Sounds, l'esordio Sink or Swim ed in gran parte di American Slang
Certamente non è una bocciatura, anzi, come vedremo più avanti c'è tanta carne al fuoco, ma l' impressione è che i TGA siano andati un pò col freno tirato, forse con l'intento di creare un album più cerebrale che sanguigno.
L'inizio però lascia ben sperare con la doppietta 45 e la titletrack Handwritten, due belle fast song, ben articolate con il solito buongusto nelle melodie sia vocali che chitarristiche. Il loro flavour si perde in quella nostalgia dei tempi andati tipica delle composizini di Brian Fallon, il tipico bravo ragazzo della porta accanto, che a dispetto del suo corpo coperto di tatuaggi, si commuove ancora per il rumore della puntina su un vecchio vinile, un buon libro e gli occhioni dolci della sua Mary Jane di turno.
Ma in questo album il songwriting si fa più profondo ed introspettivo,non si rincorre più il fantasma giovanile di Springsteen, ma si cerca di grattare sotto la superficie delle cose: evidentemente l'esperienza degli Horrible Crowes ha lasciato il segno. E' il caso di Too Much Blood, una sofferente dichiarazione di tormento interiore.
What can I keep for myself if I tell you my hell?
What would be left to take to my grave?
And what's left for you, my lover to save?
What's left for only you to take?
If I put too much blood on the page
If I put too much blood on the page
And if I just tell the truth are there only lies left for you
If I put too much love on the page? 

Ad ogni modo i rimandi ai "good old times" ci sono sempre, come nel caso di Mae, un bel salto nel passato che ci riporta agli esordi di Sink or Swim
 Stay the same, don't ever change
Cause I'd miss your ways
With your Bette Davis eyes
And your mama's party dress

While this city pumps it's aching heart

For one more drop of blood,
We work our fingers down to dust
And we wait for kingdom come
With the radio on

I wanna see you tonight

Would you come for a drive?
You can lean into me
If you ain't been in love for a while

I was born beside a river

That flows to a raging sea
That will one day serve to quell
Or one day be the death of me


La maggior parte delle composizioni stazionano su midtempos e si denota un netto miglioramento nelle parti di chitarra con l'inserimento di numerosi assoli, segno che l'esperienza ed un intensa attività live ha portato i suoi frutti, magari a scapito di quell'immediatezza che aveva contraddistinto le precedenti uscite.
Il finale è affidato all'acustica e springsteeniana (si sempre lui, il padrino della band) National Anthem che chiude in maniera soffusa e raffinata questo album.
In conclusione chi, come me, ha amato questa band fin dagli esordi continuerà a seguire il loro cammino artistico trovando sempre emozioni nei solchi dei loro vinili ( e si...sono retrò e vintage anche io come Brian Fallon), ma dubito che questo Handwritten lascerà il segno come quel piccolo capolavoro di 59 Sounds. Probabilmente un giorno i Gaslight Anthem,dopo aver vagato per le costellazioni delle rockstar, torneranno ancora nel loro piccolo per poter esprimersi senza freni e costrizioni..io per adesso rimetto su per l'ennesima volta  45...." Hey hey, turn the record over...Hey hey, and I'll see you on the flip side....
www.thegaslightanthem.com 
www.myspace.com/thegaslightanthem 
www.facebook.com/thegaslightanthem 

giovedì 16 agosto 2012

Live in Dublin Bruce Springsteen with the Sessions Band(Columbia records 2007)












Parlare di Bruce Springsteen è sempre ardua impresa: si di lui si è scritto di tutto e di più, ci sono schiere di fans incalliti che hanno sondato tutto lo scibile dell'universo springsteeniano analizzando ogni singola nota e sfumatura di ogni sua canzone, ma soprattutto parlare di un suo live album può sembrare controproducente visto che, difficilmente la registrazione di un suo concerto può raggiungere l'emozione di stare sotto il palco durante un suo show.
Inoltre, e qui metto subito le mani avanti, non sono un fan incallito, ma seguo le vicissitudini musicali del Boss solo da pochi anni, anche io folgorato sulla via di Damasco dopo averlo visto dal vivo a Torino nel 2009.
Ma tra i pezzi della sua discografia, che ho piano piano recuperato, ha un posto particolare questo Live in Dublin, testimonianza dal vivo di una serie di date che il Boss fece nella capitale irlandese, culmine di un tour che lo vide accantonare la fidata E Street Band, per circondarsi da musicisti nuovi e prtare sul palco un repertorio totalmente diverso dal suo solito, ovvero vecchi pezzi tradizionali e del songbook americano, insieme ad alcune sue composizioni tutte rivisitate in chiave folk, americana e soul.
Personalmente mi ha stupito sentire Springsteen sotto quest'ottica ma l'ho apprezzato subito per il feeling e l'energia che è riuscito a ricreare in quelle serate: versioni magistralmente stravolte e riarrangiate da musicisti fenomenali con al centro il Boss come gran cerimoniere alla perenne ricerca delle radici della tradizone americana ( che a sua volta affonda le sue origini in Irlanda, terra di emigranti, che ha dato molto alla crescita culturale degli States: Springsteen stesso ha origini irlandesi e qui il cerchio si chiude).
Si parte con Atlantic City e via via ci si addentra in una scaletta ricca di riferimenti e citazioni come il country di Jesse James o il soul di Oh Mary Don't You Weep, una versione dilatata di When the saints Go Marching in fino al tributo personale di Springsteen alla sua terra con American Land.
Questo doppio album alle mie orecchie suona come qualcosa di magico che riesce ad arrivare fino ai recessi più profondi dell'animo e sinceramente è la dimensione che più apprezzo dello Springsteen ultimo periodo, cosi lontano dai rock anthem da arene stracolme, ma desideroso e convinto di riportare la musica ad una dimensione più intima,diretta calda ed emozionale che abbraccia a 360° un immaginario musicale che parte dai Pogues e va ai Blues Brothers passando da Hank Williams e Woody Guthrie!
P.S.
Insieme ai due CD, nel packaging trovate allegato anche il DVD delle serate:un ottimo modo per godersi appieno questo live!!!
Badlands. Webzine italiana dedicata al Boss


domenica 29 luglio 2012

Reconquista Cj Ramone (SelfProduced/ITunes Store 2012)


















Nel giro di un paio di mesi  c'è stato un ritorno di fiamma mediatico e discografico legato ai Ramones, complice l'uscita del disco postumo di Joey Ramone, l' attesa biografia di Johnny Ramone ed ora il primo album solista di CJ, il bassista che sostitui Dee Dee negli ultimi dieci anni di attività della band.
Di tutta la merce esposta, se devo essere sincero, l'unica nota positiva è proprio questo Reconquista, dato che è tutta musica inedita, fatta da un fan per i fans stessi e per quell'amore indissolubile amore che lega CJ alla scena punk rock.
A differenza di altri, il "New Kid" ha sempre mantenuto un profilo basso durante la sua carriera, non si è mai lasciato andare a facili tentazioni commerciali sfuttando il nome della band in cui ha militato, ma continuando a vivere "on the road" rimanendo fedele alla sua etica .Ricordo che poche settimane fa ha suonato gratuitamente in un parchetto a Bergamo, davanti a poche centinaia di persone in un concerto davvero poco pubblicizzato.
Ad ogni modo in questo Reconquista troverete solo quello che un fan dei Ramones vorrebbe sentire: dodici canzoni veloci, dirette, punk rock con tanta melodia da vendere! Nulla di più, nulla di meno! La voce è rimasta inalterata in questi anni e chi aveva un buon ricordo di CJ al microfono, magari mentre interpreta quella leggenda di Strenght to Endure, non potrà rimanere insoddisfatto di questo album.
Si parte dalla diretta What we Gonna do Now per passare al suo tributo personale a Joey, Johnny e Dee Dee:  Three Angels ( on my Shoulder) fino alle più melodiche You're the Only One o Now I Know infacite di quelle melodie "Bubblegum-Sixties" che avrebbero trovato l'approvazione di Joey. La ritmata Shut Up sembra uscire da uno dei primi due album dei fratellini e si potrebbero trovare citazioni a non finire in ogni singola nota di questo album, quindi non mi dilungo oltre con il track by track!
Se amate i Ramones, ma come me, siete nauseati dalle baracconate che circolano sempre di più intorno al loro nome( chi ha detto pubblicità di gelati????), andate a scaricarvi questo album, sincero e senza velleità commerciali e chissà che il passaparola possa far si che il Nostro Cj non trovi una label interessata a pubblicare e distribuire degnamente i suoi sforzi!
"All is Well, CJ is here"
P.S.
a distanza di mesi da questa recensione, Reconquista è uscito su formato CD e LP, grazie a pledge your music ed al passaparola dei fans!!
www.cjramone.com
http://www.myspace.com/cjramoneamericanpunk


domenica 1 luglio 2012

"...Ya Know?" Joey Ramone (BMG Records 2012)












Per quei pochi che non lo sapessero, il personaggio in questione è stato il cantante dei Ramones per oltre vent'anni di carriera, legando indissolubilmente il suo nome alla punk rock band per eccellenza. E sempre per quei pochi che non sanno, Joey è morto circa undici anni fa e, quindi, questo cd è da considerarsi un disco postumo con tutti gli annessi e connessi, leggende metropolitane incluse.
Infatti il fratello di Joey, Mickey Leigh pare abbia trovato vecchi demo e registrazioni casalinghe che percorrono tutta la sua carriera musicale ed, entratone in possesso, abbia deciso di chiamare a raccolta vecchi amici per risuonare alcune parti e dare vita a questo album.
E quindi ecco personaggi del calibro di Steve Van Zandt (il Little Steven di Springsteen), Daniel Rey, Joan Jett, Andy Shernoff e altri impegnati in studio di registrazione a suonare e duettare con il fantasma del compianto Joey.
Fatto questo giusto preambolo, passiamo al contenuto di questo cd che, oltre a piacere ai fans dei Ramones, ha comunque parecchia carne al fuoco per la qualità dei pezzi in esso contenuti: si parte con l'inno Rock and Roll is the Answer, un anthem che poggia su riff di chitarra belli quadrati che fa molto "hair metal anni '80", un pezzo che richiama molto AC/DC e Twisted Sister. Con la successiva Going Nowhere Fast si ritorna su lidi più "ramonici", soprattutto le produzioni degli ultimi loro album e qui si nota il tocco di Daniel Rey, che fu il membro aggiunto nell'ultima decade di attività della band.
Con New York City si rinnova il profondo legame che Joey aveva con la sua città natale, l'ennesimo atto d'amore che viene tributato alla metropoli che ha visto nascere il mito dei Ramones. Proprio in questa canzone vi è una parata di ospiti, guarda caso newyorchesi come Lenny Kaye, Holly Beth Vincent, Little Steven o Handsome Dick Manitoba.
Con la successiva Waiting for the Railroad  ci si imbatte in una delle tante sfaccettature del mondo musicale di Joey: una folk ballad davvero irresisitibile, resa magica dall'inconfondibile voce del compianto cantante, che proprio in questi pezzi rimasti inediti per cosi tanto tempo, ci fa capire quanto volesse staccarsi dal modello compositivo della band madre. Joey aveva una mentalità molto aperta e spaziava in diversi ambiti musicali e probabilmente queste registrazioni erano un tentativo di sviluppare qualcosa di diverso dallo stile dei Ramones.
In effetti l'unico filo conduttore di questo cd è proprio la voce di Joey, accostata a brani dalle più disparate caratteristiche musicali, qualcosa di impensabile all'interno dell'universo Ramones.
I Couldn't Sleep è un ritorno sui territori più smaccatamente rock and roll con un cantato molto simile ad Iggy Pop, una vera icona per Joey, mentre il pezzo forte dell'intero album è Party Line, una bubblegum song dichiaratamente Anni Sessanta, dove il duetto tra Joey e Hollly Beth Vincent è pressocchè perfetto, tanto che non sembra un pezzo rifatto in studio, ma un improbabile (ed impossibile) duetto vero e proprio.
Purtroppo ci sono anche pezzi sottotono, canzoni che forse avrebbero dovuto rimanere demo, cosi come una versione "slow" di Merry Christmas, edita sull'album Brain Drain dei Ramones che lascia un pò il tempo che trova.
In chiusura c'è tempo per un altra canzone dei Fast Four, quella Life's a Gas che a tutti gli effetti chiude la carriera della band, visto che era l'ultima traccia dell'ultimo album della band, Adios Amigos!
E quindi si chiude il cerchio, e speriamo lo si chiuda davvero, visto che, a conti fatti, per chi è un fan dei Ramones, "Ya Know?" è un must e regala profonde emozioni nel risentire la voce di Joey, ma il rovescio della medaglia è una squallida operazione commerciale per raschiare il fondo del barile per una band che quando fu in attività non ebbe mai il giusto tributo!
www.joeyramone.com
Ramonestory. Portale italiano sui Fast Four


domenica 10 giugno 2012

Badmotorfinger Soundgarden (A & M Records 1991)












Nei primi anni Novanta i Soundgarden si fanno largo a spallate nell'emergente scena alternative americana, divenendo capostipiti di un genere che verrà etichettato come "grunge" da giornalisti e mass media, gettando cosi la band nel calderone insieme ad altri act destinati a lasciare il segno nella storia come Nirvana, Pearl Jam ed Alice in Chains.
Ovviamente ognuna di queste band aveva la propria personalità ed il proprio stile, ma i Soundgarden furono coloro che cercarono di farsi notare grazie al loro eclettismo musicale che univa vari generi spaziando dall'hard rock di matrice Seventies fino a territori più estremi come il metal e l'hardcore.
Con questo Badmotorfinger avvenne una svolta importante nella carriera del "Giardino del Suono", fu un trampolino di lancio verso la fama e le tournee mondiali (all'epoca di spalla ai Guns and Roses) anche se per molti Die-hard fans fu il canto del cigno di questa band, nonostante la futura consacrazione verso i piani alti delle classifiche.
Mai come prima la band mostra i propri muscoli e, grazie anche alla produzione di Terry Date, l'impatto di questo album è devastante, un muro sonoro impenetrabile, suoni lancinanti ed un Chris cornell che porta la sua voce ai limiti più estremi, creando cosi un suono che diverrà il manifesto di quegli anni.
Si parte con i freddi "rumorismi" di Rusty Cage, una killer song che non poteva essere migliore apertura, grazie anche alla sezione ritmica Cameron-Shepard, quest 'ultimo al suo esordio in line up e fautore di un magistrale lavoro al basso.
Le successive Outshined e Slaves and Bulldozers sono dei megaliti che si abbattono sull'ascoltatore: riff di matrice sabbathiana ancor più carichi di cromature metalliche ed un Chris Cornell che porta le sue corde vocali allo sfinimento. E' impossibile rimanere inerti davanti a questa doppietta, come è impossibile non sbattere la testa sin dal primo attacco di martellante batteria di Matt Cameron  che da il là al singolo Jesus Christ Pose, un potentissimo mix di metal, hardcore, ritmi tribali che diverrà il vero e proprio biglietto da visita della band.
Già a metà album ci si trova sfiancati da cotanta potenza ed anche la successiva Face Pollution non lascia respirare, talmente i ritmi sono serrati, nella canzone più punk dell'album: diretta in your face!
Qualche spiraglio lo si intravede in Somewhere, dove il chorus si presta molto alla melodia ed anche la chitarra di Kim Tayhil è meno tagliente del solito.
La successiva Searching with my Good Eyes Closed è uno dei capolavori di questo album: una lunga hard rock song infarcita da numerose divagazioni nella psichedelia più pura. Le rumorosità si stemperano lasciando spazio a melodie che verranno poi sviluppate negli anni a venire. L'influenza della cultura mediorientale del chitarrista Tayhil si fa sentire ed anche Chris Cornell modula la sua voce su timbriche più calde dopo l'orgia di violenza nella prima parte dell'album.
Proseguendo con l'ascolto ci si imbatte in qualche filler di troppo, anche se la qualità dei brani è davvero alta e spesso vengono inseriti elementi lontani dalla cultura rock in senso più stretto, come il sax in Room a Thousand Years Wide, ma quello che rimane è senza dubbio uno dei capolavori degli anni Novanta, un album vario che all'epoca mise d'accordo i fans della emergente scena grunge ed i metallari più intransigenti, proprio per quel connubio di stili che ha sempre caratterizzato la band di Cornell e soci.
Per molti i veri Soundgarden finiscono qui, accusati di aver intrapreso una via più commerciale con il successivo Superunknown. Di sicuro il sottoscritto è sempre stato affascinato da questo platter e dallo stile che la band aveva adottato all'epoca, distanziandomi parecchio gli anni successivi, nonostante altri due ottimi album che però non hanno il mordente di questo Badmotorfinger!
www.soundgardenworld.com
Unofficial Soundgarden Site
www.myspace.com/soundgarden

domenica 3 giugno 2012

The Meanest of Times Dropkick Murphys (Born & bred records 2007)











Ci sono album che dopo il primo ascolto sai già che non ne potrai più fare a meno, ci sono album che invece sono relegati in qualche scaffale con qualche dita di polvere e ci sono album che vengono riscoperti col tempo, perchè in noi scatta quel qualcosa che  ce li fa apprezzare e magari canticchiare senza sosta nella nostra testa.
Ecco, The Meanest of Times appartiene a quest'ultima categoria: un disco uscito nel 2007 che però, il sottoscritto ha iniziato ad apprezzare con qualche anno di ritardo, complici alcuni concerti dei Dropkick Murphys dove l'esecuzione di alcuni brani mi hanno fatto scattare quel fatidico "clic" nella testa.
Mettendo in fila la discografia della band, TMOT lo considero il primo tassello dell'ultima incarnazione evolutiva della band, ovvero quel "wall of  sound" fatto di chitarre massicce, basso e batteria dove gli spazi vuoti vengono riempiti da un tappeto di cornamuse e thin whistle, rendendo cosi il suono compatto e spesso, definito dai critici come Celtic Punk.
Le 15 tracce (più la bonus track Jailbreak dei Thin Lizzy) filano via che è un piacere, un treno in corsa inarrestabile, con grande precisione nei suoni, un 'alternanza alle vocals (in puro spirito irish folk) tra Ken Casey e Al Barr che raggiunge la perfezione e testi sempre più elaborati e significativi.
L'introduzione di uno strumento tradizionale come il banjo è uno degli elementi nuovi della band ed il giro che apre la titletrack ti si stampa in testa sin dal primo ascolto. A seguire anthem punk rock da cantare e consumare sudando sotto il palco. I Murphys ormai sono una garanzia: chi ascolta un loro disco sa cosa trovare e difficilmente ne rimarrà deluso.
Tra gli Highlights segnalo la splendida God Willing, classico DKM-Style, contenente una riflessione sulla vita e sulla perdita dei propri cari
God willing, It's the last time I'll say goodbye
God willing, I'll see you on the other side
It's the last time I'll put my arms around you
The last time I'll look into your eyes
I've come here to put my arms around you
And say one final goodbye
Yeah, I'll see you on the otherside
Yeah, I'll see you on the otherside

 cosi come Famous for Nothing o Vices and Virtues, piccole storie del quartiere operaio di Quincy, a Boston, che vengono trasformati in inni per i fans della band.
Come scrissi nella recensione di The Warrior's Code, la forza della band è quella di trasformare piccole storie quotidiane della loro città in canzoni che verranno poi  amate dai propri fans, creando un legame unico tra Boston, la band e la Dropkick Murphys Crew sparsa per il globo!
La componente Irish ovviamente non viene messa da parte ed il tributo alla "Diaspora Irlandese" arriva puntuale con Flannigans Ball, dove la band viene supportata dalla partecipazione di  Ronnie Dew dei Dubliners e Spider Stacy dei Pogues, mentre il momento riflessivo è dato dalla ballad Fairmount Hill, ovvero una ballad tradizionale, Spancil Hill, riadattata in chiave bostoniana proprio dalla band stessa.
C'è tempo anche per parlare di amore, nel bene o nel male, perchè si sa che queste cose prima o poi capitano nella vita di un uomo e allora Rude Awakenings lascia spazio ai turbamenti amorosi senza però crogiolarsi nella depressione, ma con una punta d'ironia nera tipica dei Dropkick Murphys.
With equal surprise she opened her eyes
Sat up & shouted "for christ sakes who the hell are you!"
(What she take ya for)
She cooked me my breakfast then called me a cab
Shoved me out the door & threw the five dollar
Fare in my face
(What she take ya for)
She took me for all I was worth
May I remind you that ain't much at all
A meaningless gesture in the meanest of times
As it turns out you weren't worth the call
 I though it was all just a nightmare
I guess it was true
But now I'm left with a daily reminder of you 

L' ultima traccia degna di nota è Johnny I Hardly Knew Ya, ormai presenza fissa nella setlist dei loro concerti, l'ennesima rilettura di una marcia militare, Johnny I'm Coming Home trasformata in una roboante punk rock song infarcita di cornamuse che senza dubbio potrebbe essere il biglietto da visita di questo album. 
The meanest of Times è l'ennesimo tassello della discografia di una band che ormai ha consolidato il proprio status, un punto di partenza per chi non li ha mai ascoltati oppure l'ennesima conferma per i fans più fedeli della band. Di sicuro abbiamo una manciata di ottime canzoni che non devono finire nel dimenticatoio!
www.dropkickmurphys.com

sabato 26 maggio 2012

The Warrior's Code Dropkick Murphys (Hellcat Records 2005)












L' immagine della cover con  due pugili che si affrontano a colpi di ganci e montanti è il biglietto da visita di The Warrior's Code, quinto album dei bostoniani Dropkick Murphys ed ennesimo tassello della loro discografia che ha visto incrementare la loro popolarità di anno in anno.
Il personaggio rappresentato è niente meno che Michael Ward, pugile professionista di Boston al quale i Nostri dedicano il loro disco ( e su di lui verrà girato anche un film, The Fighter qualche anno dopo), l'ennesimo tributo che la band americana rivolge a qualche illustre personaggio della propria comunità irlandese residente a Boston.
Musicalmente i DKM arrivano dal successo di Blackout, un album che smussa le spigolosità street-Oi degli esordi per un approccio più melodico con sempre più marcate influenze folk. Con questo nuovo album la matrice Irish -Folk si fa sempre più presente rendendo cosi, The Warrior's Code, un disco di transizione tra il passato e l'evoluzione futura come celtic-rock band.
Come al solito i Murphys ci regalano un lotto di ottime canzoni, che ad oggi sono ancora presenti in scaletta durante i loro conerti e sono entrati nel cuore dei fans sparsi nel mondo: si parte in quarta con la doppietta Your Spirit' s Alive e The Warrior's Code, legnate punk rock con cori possenti e la cornamusa di Scruffy Wallace a creare un massiccio muro sonoro di sottofondo.
Si prosegue con la sgangherata Captain Kelly's Kitchen, ovvero un tradizionale irlandese rifatto alla maniera dei "bostoniani", dove l'alternarsi delle voci di Al Barr e Ken Casey si fa sempre più frenetico e veloce. Il riprendere brani della cultura popolare irlandese è una caratteristica che accomuna tutti gli album dei DKM, una peculiarità che rafforza il legame con la terra d'origine. In The Warrior's Code troviamo altre reinterpretazioni come The Auld Triangle, una poesia del poeta irlandese Brendan Behan ripresa anni fa anche dai Pogues e qui rifatta in un potentissimo anthem a rotta di collo sull'ascoltatore. Inoltre l'unica ballad presente, The Green Fields of  France, è un pezzo scritto dal cantautore australiano ma di origini scozzesi Eric Bogle, che ha come tema la drammaticità della guerra nelle riflessioni dell'autore stesso in visita ad un cimitero militare. Un testo profondo e toccante che i Murphys reinterpretano magistralmente grazie anche al cantato di Al Barr, davvero sopra le righe.
Sunshine Highway è il primo singolo estratto, una celtic-pop rock ballad dal ritornello molto catchy che sembra fatta apposta per cantare e ballare tra una pinta e l'altra, mentre l'ultima cover proposta è I'm Shipping Up to Boston, scritta da Woody Guthrie come tributo alla città portuale del Massachussets e rifatta dai Murphys nel loro stile punk folk, diventando uno dei pezzi più conosciuti della band, anche perchè inserita nella colonna sonora del film The Departed.
Il finale dell'album è affidato a Last Letter Home,ovvero la trasposizione in musica dell'ultima lettera che un soldato americano in Iraq scrive alla famiglia ed alla moglie pochi giorni prima del congedo, che però non vedrà mai perchè ucciso pochi giorni prima di tornare a casa. Essendo un grande fan dei Murphys ha chiesto alla band di suonare le cornamuse durante il suo funerale e con questa canzone viene dedicato un grande tributo alla sua memoria.
E proprio con Last Letter Home vorrei spendere due parole sulle lyrics dei DKM: profonde e toccanti nella loro semplicità e nel raccontare storie comuni, di amici, di vita, della loro Boston e renderle speciali per chiunque si avvicicini all'universo della band.
Hello there my dearest love
Today I write to you about our sons
The boys start school today
They're the spitting image of you in every way

Hey son it's Dad
I hope this letter finds you well out of harm's way
We saw the news today it frightened your Mom
Now all she does is pray

If I lead will you follow?
Will you follow if I lead?
 Hey Melissa it's me don't be afraid

I'm in good hands I'm gonna be home soon
It's time to watch the children grow up
I wanna be more than a voice on the phone

Thanks Ma I got your package today
I love "The Fields Of Athenry"
I swear I want 'em to play that song on the pipes
At my funeral when I die
 
I stand alone in the distance
And the foreground slowly moves
"We regret to inform you that on January 28th Sgt. Andrew
Farrar died while serving his country in the Al-Anbar province
of Iraq words cannot convey our sorrow"
When there's nothing on the horizon
You've got nothing left to prove

If I lead will you follow?
www.dropkickmurphys.com 
www.myspace.com/dropkickmurphys 
www.facebook.com/dropkickmurphys 

lunedì 7 maggio 2012

August and Everything After Counting Crows (Geffen records 1993)












Nei primi anni Novanta i Counting Crows vengono gettati nella mischia del calderone rock mainstream grazie ai passaggi in heavy rotation del loro singolo Mr Jones, che diverrà la "One Hit Wonder" della band relegandoli a meteora di MTV senza tener conto delle grandi potenzialità di questo gruppo.
August and Everything After è il folgorante debutto di  musicisti semisconosciuti guidati da un istrionico personaggio che ha vagabondato per gran parte della sua esistenza per le strade d'America, innamorato della poesia di Dylan e Springsteen e, che grazie a quest'incontro, riesce finalmente a liberare le sue doti di cantante e songwriter.
Adam Duritz diventa il leader grazie alla sua voce malinconica, a metà tra Michael Stipe e Sting, che si aggrappa con le unghie alle raffinate melodie della sua band che, finalmente, riesce a riportare in classifica questo ibrido tra rock, blues e folk, ovvero le radici più pure della tradizione americana.
Ascolto dopo ascolto ci si affeziona alle storie raccontate lungo le undici tracce di questo album, storie semplici, storie di un paese immenso come l'America, che, con le sue metropoli( come San Francisco, cantata in Sullivan Street) spesso si dimentica di posti lontani e sperduti, dove però si continua a vivere, sognare e sperare.
Omaha, somewhere in middle America
Get right to the heart of matters.
It's the heart that matters more.
I think you better turn your ticket in
and get your money back at the door.

(Omaha)
Ed il sogno e la speranza magari sono proprio sopra un treno, che farà fuggire dalla provincia, per non invecchiare e morire di solitudine
 She buys a ticket cause it's cold were she comes from
she climbs aboard because she's scared of getting older in the snow
love is a ghost train rumbling through the darkness
hold on to me darling I got nowhere else to go

(Ghost Train)
e magari, un incontro inaspettato potrà riservare un grande amore, come nella migliore delle favole rock and roll.
 Anna Begins è una grande canzone che scava nelle profondità del dilemma amoroso, con i dubbi, i pensieri, le parole vane di chi consiglia dall'esterno (un amico...un'amica), ma alla fine è sempre il cuore a decidere cosa sia giusto o no, magari nel modo più irrazionale che ci sia. Ed è proprio l'incedere di questa canzone, con i suoi cambi d'accordo che fa dissipare le nubi che avvolgono il cuore della protagonista.
 It does not bother me to say this isn't love.
Because if you don't want to talk about it then it isn't love.
And I guess I'm gonna have to live with that.
But I'm sure there's something in a shade of grey,
Or something in between,
And I can always change my name
If that's what you mean.

La malinconia però è il sentimento che fa da padrone in gran parte dei pezzi di quest'album, come nella bellissima ma terribilmente amara Rain in Baltimore o nell'oblio di Perfect Blue Buildings, un luogo fantastico e sereno dove rifugiarsi dalla grigia monotonia di tutti i giorni.
It's 4:30 A.M. on a Tuesday.
It doesn't get much worse than this.
In beds in little rooms in buildings in the middle
of these lives which are completely meaningless,
help me stay awake, I'm fallin'...

Asleep in perfect blue buildings,

beside the green apple sea,
I wanna get me a little oblivion, baby,
and try to keep myself away from myself and me.

E poi c'è il singolo Mr Jones, croce e tormento dei CC, il loro pezzo più famoso, che però li ha imprigionati in un effimero successo: una grande canzone, melodica, ruffiana con quel suo "Sha-la-la-la" di  vanmorrisoniana memoria, ma che possiede tutte le qualità per superare la prova del tempo ed essere incastonata tra gli evergreen degli anni Novanta.
Un grande debutto che merita di essere ascoltato ed apprezzato, cosi come la successiva discografia dei Counting Crows: dischi che sono passati in secondo piano, ma che conservano le ottime qualità mostrate nel fantastico esordio di Duritz e soci.
www.countingcrows.com
 feathers in my hand-sito italiano sulla band









domenica 29 aprile 2012

Yield Pearl Jam (Sony Music 1998)












Avevamo lasciato i Pearl Jam con No Code , un album transitorio e molto eterogeneo che aveva diviso critica e fans, ma che poteva essere considerato la chiave di svolta per la loro carriera. Infatti con il successivo Yield la band di Seattle taglierà definitivamente i ponti con i cliches del "grunge" per abbracciare un ambito rock più ad ampio raggio, ma soprattutto ricreare un immagine di se stessi più matura, credibile e lontana dagli eccessi dei primi anni Novanta.
Se nel disco precedente vi erano evidenti tributi al "padre spirituale" Neil Young, qui i riferimenti agli anni Settanta si fanno più forti, specialmente con bands come Who (grande passione di Vedder) e Led Zeppelin ai quali i PJ cercano di avvicinarsi soprattutto nel sonwriting, dove tutta la band è impegnata nella stesura dei brani, un unione di forze dove non spicca nessuno in particolare, ma tutti danno il giusto contributo.
Sin dalla copertina si denota la voglia di fuga e di ampliare i propri (illimitati) orizzonti e la musica che ne esce ha un mood più oscuro e malinconico rispetto al passato. C'è un bisogno di introspezione e di ricerca interiore, in più di un occasione Vedder canta la sua voglia di rinascita lontano dalle luci della ribalta e dalle facili sirene del successo che lo hanno accompagnato  in questi ultimi frenetici anni.
'Cause I'll stop trying to make a difference
I'm not trying to make a difference
I'll stop trying to make a difference (No Way)

C'è sempre spazio per le scariche di adrenalina come in Do the Evolution o Brain of J, giusto per ricordarsi che McCready e Gossard sanno sempre scrivere grandi riff e la band quando vuole picchia duro, ma gli highlight del disco si trovano nei momenti più rilassati come nella ballad Wishlist, una cantilena costruita su due accordi in cui Vedder rende merito alla sua voce calda, Low Light e In Hiding dove, in quest ultima ricorre il tema della fuga dalla notorietà, evidentemente un peso davvero insopportabile per il cantante, quasi una morsa asfissiante e carica d'angoscia.
I swallowed my words to keep from lying
I swallowed my face just to keep from biting, I, I
I swallowed my breath and went deep, I was diving, I was diving
I surfaced and all around my being was enlightened
Now I'm in hiding 

I'm in hiding
I'm in hiding
Oh, I'm in hiding
I'm in hiding
I'm in hiding
I'm in hiding
I'm in hiding 

E se Given To Fly è stato criticato per la sua somiglianza con Going to California degli Zep, poco importa, perchè è un grandioso pezzo, forse il manifesto più limpido della voglia di libertà che i PJ cercano e che vogliono perseguire con questa nuova direzione musicale.
Ad ogni modo Yield è un disco che va assaporato lentamente, ascolto dopo ascolto per cercare di capirne le sfumature e le motivazioni che lo permeano: è il definitivo passaggio dall'adolescenza alla fase adulta per questa band che chiuderà cosi il suo primo decennio di carriera artistica ( il successivo Live on Two Legs ne sarà il sigillo) fatto da una rapida ascesa nell'Olimpo del rock e da una conseguente maturazione per rimanervi per non bruciare velocemente come molti altri hanno fatto in precedenza.
P.S.
C'è anche un pezzo d'Italia in questo album: MFC è stato composto proprio a Roma durante un viaggio di Vedder, in visita presso alcuni amici italiani. La sigla sta per Many Fast Cars e dovrebbe riferirsi al traffico caotico della capitale.....
www.pearljam.com
www.pearljamonline.it (sito ufficiale del fan club italiano)


 

giovedì 26 aprile 2012

No Code Pearl Jam (Sony Music 1996)












Dopo la triade "monolitica" di Ten-VS-Vitalogy i Pearl Jam sono sul tetto del mondo, eletti ad eroi della scena grunge, essendo ancora sopravvissuti alla pressione ed ai vizi da rockstar di Seattle nonostante estenuanti tour mondiali ed una fama  in crescita esponenziale.
Fortunatamente i Nostri decidono di prendersi una boccata d'ossigeno e messe da parte arene e stadi si buttano in svariati side project e collaborazioni che saranno un vero toccasana per gli anni a venire.
No Code è il primo album del dopo Seattle, dove, abbandonate le calde camicie di flanella, Eddie Vedder e soci spiccano il volo verso un rock più variegato  e ad ampio respiro, allargando i propri orizzonti e mettendo in pratica quello  che hanno assorbito dalle influenze esterne.
L'opener Sometimes suona come un tributo al "padrino" Neil Young con la sola voce di Eddie Vedder accompagnata da una chitarra acustica. Gli ormoni rock vengono però sfogati con la successiva Hail Hail, anche se siamo lontani dal Seattle Sound dei primi anni Novanta: è tutto più diretto e lineare,i suoni più scarni ma efficaci anche se, i Pearl Jam non hanno certo ammorbidito il loro suono; lo testimonia una punk song rabbiosa come Lukin, forse il pezzo più violento mai scritto dalla band o Red Mosquito, l'ennesimo tributo agli anni Settanta con un gran lavoro del duo Gossard-McCready alle chitarre.
Anche i testi si fanno più introspettivi ed ermetici, Vedder dimostra una spritualità ed una profondità d'animo in continuo crescendo: il disagio giovanile viene mitigato da una continua ricerca interiore
                                       ''seek my part/devote myself/my small self'    '(da Sometimes)
In Present Tense i respirà positività, lo stimolo di guardare sempre avanti e non rimanere succubi del passato e dei propri errori 
You can spend your time alone, redigesting past r                                                       You can spend your time alone, redigesting past regrets, oh...
Or you can come to terms and realize
You're the only one who can forgive yourself, oh yeah...
Makes much more sense to live in the present tense... 

Ma l'highlight del disco è ancora una ballata, quella Off He Goes giocata su pochi accordi semplici, ancora una volta il tributo a Neil Young è palese ed i riferimenti sono continui in tutta la sua malinconica melodia.
Ad ogni modo troviamo anche parecchie novità come Stone Gossard che canta in Mankind, una pop rock song diretta e ruffiana oppure l' armonica in Smile, elemento che porta i Pearl Jam ad abbracciare la tradizione musicale prettamente americana.
Molti fans all'epoca storsero il naso per questo cambio di direzione della loro band preferita, ma con il passare degli anni No Code è stato ampiamente rivalutato, considerato un perfetto disco di passaggio dagli anni del grunge a quelli della maturità artistica; una band che ha saputo sfruttare con intelligenza le proprie capacità artistiche sapendosi evolvere e riuscendo a far proprie le influenze accumulate da collaborazioni esterne.















www.pearljamonline.com  (sito del fan club ufficiale italiano dei PJ)

domenica 8 aprile 2012

In Concerto, A Cuor Contento Giovanni Lindo Ferretti ( Edizioni L'Espresso XL 2012)











Parlare di un personaggio pe(n)sante come Ferretti è sempre rischioso, vista la sua importanza nel panorama musicale italiano e viste le sue prese di posizioni che hanno da sempre dato addito a polemiche, nel bene o nel male.
 Da anni ha abbandonato la vita on the road, complice la malattia e quella voglia di estraniarsi da un mondo sempre più frenetico e superficiale, salvo qualche manciata di date ben mirate, dove rilegge i classici della sua carriera, che siano dei CCCP oppure dei CSI.
Il cd che questo mese allega il mensile XL è una raccolta di alcuni  momenti della tournè dello scorso anno che lo ha visto girare l' Italia insieme ai suoi vecchi amici Ustmamò Ezio Bonicelli e Luca A. Rossi e ci consegna un Ferretti davvero in gran forma, ma profondamente cambiato nel suo approccio live.
Le versioni sono volutamente scarne ed essenziali, accompagnate da chitarre minimali o dal violino di Bonicelli, lontane dalle scariche di watt a cui eravamo abituati quando il palco era condiviso con i compagni ( è il caso di dirlo) di una vita Zamboni-Canali. Ora il cantato di Ferretti è più profondo e meditativo, quasi ascetico, un lungo salmo che la dice lunga sul suo cambiamento interiore a cui ha fatto fronte in questi ultimi anni: alla frenesia ed all'urgenza del punk rock filosovietico da lui creato ora da spazio all'introspezione più pura, alla profondità della sua voce in un viaggio che lui stesso definisce musicaterapia.
Anche alcuni versi delle sue liriche sono volutamente cambiate e qui, i fans più puri, si divertiranno a scoprire cosa è rimasto e cosa invece è stato stravolto.
Si parte con Depressione Caspica, quasi un mantra tanto è lenta e profonda per passare alla versione "tango" di Amandoti fino ad Annarella, forse uno dei pezzi più amati dal pubblico. Il periodo CSI vede anche una versione semielettrica di Unita di Produzione, che spogliata dagli orpelli rumoristici a cui eravamo abituati a sentirla non perde il suo fascino.
Il finale affidato a M'importa una Sega è però quel cordone ombelicale che lo lega al suo irriverente passato da punkettone, perchè certe cose le si porta dentro ed a noi piace pensare di continuare a vedere Ferretti piantato sul palco che provoca il pubblico come faceva venticinque anni fa...Mi importa una sega, una sega assai/ma fatta bene che non si sa mai...
C'è chi punk lo fa per moda e c'è chi si porta dentro certe esperienze e non le lascerà mai. Grazie Giovanni per tutto!
www.facebook.com/giovannilindoferretti